Comune: Modena
Provincia: Modena
Edicola: Edicola Libreria Estense di D’Alessandro Elisa – Baggiovara fraz. di Modena (MO)


a mio padre

Ricordo quella volta che venisti a prendere una limonata nel bar dell’ospedale. Eravamo io e te di fronte nel tavolino del bar, poche parole, ma abbastanza. A fatica accettavi simili inviti, che io ogni tanto ti tentavo, di offrirti un caffè, od altri similari mercanzie, non certamente per sdegno, da persona umile quale eri, ma quasi a significare, mutamente, che è il padre a dare tutto al figlio, oltre la vita naturalmente, non il viceversa.
Quella volta bastò, con intesa di poche parole, ma sufficienti, simboliche di tante occasioni, ad avvalorare quella mia offerta, a rendicontare con la tua presenza che stavo lì con te, come un gesto di affetto e rispetto, di me a te, stavolta davo io a te qualcosa.
Andammo poi in edicola, là vicina, che volevo leggere le news negli striscioni appesi, tu silente, poiché non eri molto abituato alla lettura dei giornali.
Mi appare poi, da quel giorno, sfumato. Osservo immagini di antiche fotografie, sali d’argento sulla carta, sui quali si crea l’immagine dalla luce, ma che successivamente l’esposizione alla luce sfoca nel tempo. è la tua immagine, fioca, in quell’aèrea nuvola illuminata dal sole, al termine della tua vita, che narravi di avere sognato in vita.
All’indomani, dell’appuntamento al bar, dopo quella limonata, che bevevi taciturno, come un tuffo in un profondo abisso, acqua salmastra di un mare che ha lambito per un istante la nostra casa, ed un colpo d’intima angoscia, scomparivi. A giugno, quando il primo caldo segna l’estate colmo di antico sogno, quando della Repubblica torna il ricordo. Quando avvenne, tutto, incidente, che ti trovò da solo in strada, con la piccola automobile tua, ferita, sepolta, tuo intimo sepolcro. Automobile contro automobile, strade di ferrei destini, crudi, uomo scontra uomo. Quel tuffo, ti portò via, come un sentiero profondo che inseguivi, giù nel fondo di un mare nero, là andavi.
Allora babbo, cosa avresti detto l’ultima volta che ci saremmo incontrati? E tu, ragazza che incontro per strada, cosa avresti detto a mio padre? Io cosa avrei detto a voi? All’edicola, accanto al bar, che notizie avremmo letto?
Sono, padre, le ultime parole, che non ho saputo e non saprò mai. Quelle non dette, che contano, che hanno importanza più delle mille che si sanno.
Camminavo con te per le vie del centro città, inseguivo il filo delle piastrelle sul marciapiede, tentando, in equilibrio su un passo dopo l’altro, fra piastrelle sconnesse, di inseguire percorsi immaginari. Luoghi ove nulla è mai detto, niente è per sempre. Sorse d’improvviso un dubbio, di pensieri sconnessi, udire voci di un melodia che non è mai stata. Forse voci di un canto oscuro. Nel sole d’estate, quando il riflesso sulla piazza lontana, mostra un estremo chiarore di luce confusa, bianca, che pare un mare urbano. Mare, che ondeggia, sussulta, a volte eco di folla immensa, inghiotte, sparisce.
Ricordo, vorrei dire, quando le parole di un discorso, le lettere, i caratteri, ti appaiono sfasati, emblemi di pensieri sconnessi. Si ascoltano voci di una melodia che vorresti dire, ma come in sogno, quelle parole sono solo una pellicola muta, soltanto raffigurazione, di un parlato che solo infine sarà stato.
Così è una vita che non è più, parole di un discorso interrotto, parole di un linguaggio sconosciuto, scomposte. Mi appari ora con nitidezza.
Cammino in una città variegata, dove incontrare strade, che ti portano ovunque, dal centro alla periferia, dalla periferia al centro, dal nord al sud, da sud ad ovest, da ovest all’est; negozi che circondano, manifesti, volti noti, nuovi, o affollati. Affollamenti, al mercato, nei bar, per piazze. Edicole che si trovano, sempre, sparse, ovunque nelle dimore dell’uomo.
Basta un cenno a darsi un saluto, a farsi chiacchere al bar, alzati all’edicola del borgo, chat dei tempi moderni, rivivere come all’uomo antico, dargli le genti, dal vivo, privarlo delle reti elettroniche e computer.
Eppure, volto amico, di antica memoria, sapresti dire ciò di cui abbiamo parlato?
Non della politica, del tempo che fa. Nel dubbio di affanni e gioie familiari. Le cose rimangono lì, immobili. E sentimenti che impazzano. Sentirai le cose a modo tuo. Ciascuno con una cosa. Emozioni uniche con affari personali.
Ricordo da bambino, quando andavo a quelle strane case di parole, edicole che incontravo per strada. Case già dei tempi antichi, ora dei moderni. Allora le incontravo sulla via per la scuola, che in seguito diverranno autostrade da città a città.
Andavo ai segreti di giochi nascosti fra le pieghe di carta, con le mani a cercare, fra mille edizioni, libri, giornali, le mille parole.
In seguito, amico, avresti imparato che le mille parole non bastano.
Allora quale il mistero, l’emozione riposta dentro di te, casa di parole, edicola amica di mille discorsi?
Cerco il tempo presente, ma non lo trovo. Forse nel passato prossimo, o nel futuro immediato. La verità, nessuna di quelle parole è quella giusta.
Le mille parole, discorsi sparsi nelle pieghe di una città. Frammenti di un racconto che vorresti dire. Intendi intentare ma viene intesa di sillaba muta.
Quando in una pellicola di un cinema primordiale, pura luce di una lanterna riflessa in un mare di celluloide, teca di archivio storico, il sonoro è sfasato da immagini, o film muto che le didascalie non rappresentano voci e conversazioni.
Trovi sconnesse parole dentro un cammino di città, sfasate riferimenti, di strade, negozi, bar, piazze, volti, folle. Urne di pensieri sconnessi, che nessun sacerdote avrà mai celebrato.
Ma il mistero rimane in te, edicola amica, di essere fonte di mille discorsi, eroiche dimore, parole di un fiume, origine, che sparge il verbo nelle strade di una città, seme sconosciuto di frammenti, di piazze, di folle.