Comune: CASTELFRANCO DELL’EMILIA
Provincia: Modena
Edicolante: Edicola Ferrari, via Emilia, Modena


Ricordo la prima volta che vidi il chiosco dei giornali, in via Emilia poco distante dalla Ghirlandina. Era una domenica di ottobre ; io e mio padre passeggiavamo per il Centro di Modena. Non faceva freddo, ma una nebbiolina umidiccia offuscava il cielo; i palazzi mi sembravano tutti grigi, sporchi di fumo, e grigia era anche la strada, e la gente che passava stretta nei loro loden o gabardine. Poi d’improvviso, dopo la penultima arcata del portico, ecco comparirmi dinanzi una casetta . La Casa dell’Arcobaleno, l’aveva chiamata mio padre. Era l’edicola dei giornali che aveva le pareti di vetro tappezzate di riviste colorate . Dall’unica finestrella un signore s’affacciava e sorrideva alla gente che passava.
Mi metteva allegria; quel giorno scelsi il mio primo giornalino, un fumetto di Soldino. Dimenticai per diversi anni quell’episodio; mi tornò alla mente tempo dopo, da grande, quando decisi, imprevedibilmente, di rilevare l’attività. Sapevo che non sarei diventato ricco, però era come avere una casa in Centro Storico; entravo nel chiosco alle cinque del mattino e me ne andavo alla sera, verso le sette.
Il furgone scaricava i quotidiani a margine del marciapiede. A quell’ora non c’erano auto; qualche autobus, il camion della nettezza urbana; i taxi dormivano nella piazzetta; sentivo l’aroma del caffè giungere dal bar vicino e il sentore acre del toscano del primo passante, il ragionier Palmieri, che portava a spasso il cane. Le poche voci isolate della strada a quell’ora si potevano contare . Salutavo Dante lo spazzino, il barista e il fornaio, Gino la guardia notturna che in bicicletta rientrava a casa. Poi pian piano la via e il portico si animavano; impiegati, studenti, commercianti, fattorini, questurini e carabinieri, “pulismani”, i piccioni, i gatti e qualche cane randagio. Poco prima che tutto questo accadesse, Cavariana il vagabondo che dormiva sotto il timpano della chiesa, arrotolava il suo giaciglio formato da un cartone e una vecchia trapunta e si metteva a sedere sotto il portico con la schiena appoggiata a una colonna a masticare pane e vino ; di lì a poco avrebbe il teso cappello ai passanti . Più tardi, lungo quel segmento portico, giungevano anche gli zingari. Fu una domenica mattina di un giorno di primavere che vidi per la prima volta Kalheb; doveva avere circa dieci anni,forse meno; era più basso della sua età, capelli corti e neri, viso olivastro, occhi neri e vivaci; le scarpe erano consumate, con spago al posto dei laccetti, un paio di blue jeans luridi e strappati sulle ginocchia; era solo e chiedeva l’elemosina ai passanti. Non era il primo zingaro che mendicava in zona, ma lui lo notai perché aveva un sistema tutto suo per convincere la gente a sganciare una moneta. La gente che passa sotto il portico ha fretta e guarda dritto davanti a sé, lui restava al di sotto della linea dello sguardo dei passanti; allora si attaccava ai lembi dei cappotti o delle sottane e se non otteneva ciò che voleva mollava dei gran calci agli stinchi della persona insensibile. Era un bambino e quindi la maggior parte delle persone si limitava a gridargli dietro degli improperi e a massaggiarsi la parte dolente. Finchè un giorno la vicenda non andò in modo diverso. Stavo sistemando le riviste nella vetrinetta di destra quando sentii delle urla provenire dalla strada. Vidi un uomo sui cinquant’anni che teneva per il collo il bambino, con una mano l’alzava da terra e contemporaneamente faceva partire un calcio nel sedere del bambino, che si alzava come fosse seduto su di un’invisibile altalena . Si era formato un capannello di persone; alcuni dicevano che una lezione gli sarebbe servita e che se l’era cercata, altri, per lo più donne, cercavano di smorzare l’ira dell’uomo.
“ Ma la finisca! E’ solo uno zingarello! Ma si vergogni! Sta esagerando! Lo vuole uccidere!”
“ E no, non smetto fintanto che non gli rifilo un calcio nel sedere per tutti i calci negli stichi che mi ha dato…il delinquente ladro”
Uscii in strada; conoscevo più o meno tutti; mi guardai attorno: non c’erano vigili né poliziotti. Non avevo mai nutrito una particolare simpatia per i nomadi, ma quello dopo tutto era solo un bambino.
Notai che lo zingarello era tutt’altro che annichilito; cercava di restituire come poteva i calci ricevuti; mi meravigliai che conoscesse tante parolacce e imprecazioni e soprattutto non rinunciava a lottare.
Mi feci largo tra la gente. Non so come riuscii a aprire la mano dell’uomo stretta attorno al collo di Kalheb.
“ Di che t’impicci giornalaio”
“ Non fare il cretino è solo un bambino; mettiti un cerotto dove t’ha mollato il calcio basta!”
Mi mandò a quel paese; forse stava per aggredire anche me; poi vide la gente tutt’intorno che in quel momento lo fissava senza parlare; sputò per terra , diede un calcio alla colonna del portico e si allontanò maledicendo ogni cosa.
Quando mi girai il bambino non c’era più; qualcuno ancora si intratteneva a commentare il fatto; ma non per molto; i capannelli si sciolsero e pochi minuti dopo la gente riprese a passeggiare tranquillamente sotto il portico, come sempre.
Era trascorsa non più di un’ora; ero intento a sistemare un pila di quotidiani da rendere, quando vedi due occhi affiorare da sotto la finestrella dell’edicola.
“ Questa devi averla persa tu …”. Era proprio il piccolo vagabondo, cacciatore di “stinchi”.
Tra le dita stringeva una catenina col crocefisso in argento. Mi toccai il collo; era proprio la mia.
“ Me l’hai fregata tu scommetto?!”. Non volevo passare per fesso.
“ Al diavolo – disse – tutti uguali voi Gaggi; siccome sono uno zingaro debbo per forza rubare. T’è caduta mentre ti azzuffavi con quel grosso deficiente lardoso”.
Guardai quella faccia troppo furba per me. Era un bambino , ma parlava come un giovane scapestrato che conosce il mondo . Nelle tasche dei jeans spuntavano il manico di madreperla di un coltellino e una fionda.
“ E’ tua la baracca ?”
“ Già” gli dico e riprendo il mio lavoro.
“ Volevo ringraziarti per esserti messo in mezzo… insomma per avermi difeso; non capita quasi mai”
“ Tu però te le vai a cercare; e passi che te ne vai in giro a chiedere l’elemosina, anziché essere a scuola; ma prendere pure a calci la gente … è una bastardata”
“ Mi prendi in giro!? Mi parli di scuola…La mia scuola è qui sulla strada; sulla strada ho imparato molte più cose di te; so tre lingue e capisco quando uno mi vuole fregare. Se non te ne fossi accorto sono un Rom, mi lavo nel fiume, d’estate come d’inverno, piscio lungo i fossati e la mia casa non ha radici”
Disse questo masticando una gomma americana e divaricando le gambe con le mani posate sui fianchi. Guardava le riviste esposte.
“ Ci sono molti libri”
“ Sì, come vedi … sono per lo più fumetti”
Si avvicinò all’entrata e prese in mano un Tex
“ Preferisco quelli a colori”
Gli allungai un Topolino.
“ Pagliacciate !” disse; roba per poppanti e cagasotto.
Vidi che allungava la mano sullo scaffale; per un attimo credetti che mi stesse fregando qualcosa; invece prese un libro con le illustrazioni a colori.
“ Che roba è?”
Fratelli Grimm , sono fiabe… Se vuoi puoi leggerlo; ti metti a sedere lì.
Sfogliò il libro incuriosito. “ Non so leggere; raccontami tu qualcosa”.
Non potevo mettermi a leggere; c’era da servire i clienti; erano fiabe che conoscevo e che mi aveva raccontato tante volte mia madre nelle sere della mia infanzia. Cominciò così la mia esperienza di narratore di favole. Io gli narravo la storia e lui guardava le illustrazioni.
Iniziammo da Cappuccetto Rosso. Ero convinto che si sarebbe scocciato subito, invece rimaneva ad ascoltare incantato, col silenzio rotto solo dai continui”…e poi” quando mi fermavo per allungare un quotidiano.
Fu la volta di Barbablù, Hansel e Gretel, Pelle d’Asino. Khaleb veniva all’edicola oramai quasi tutti i giorni e non chiedeva più l’elemosina in zona. Quel che mi meravigliò di più fu scoprire che dietro a quel volto diventato troppo presto grande, con la lingua di uno scaricatore di porto, e la faccia piena di lividi e cicatrici, dietro c’era ancora intatto il bambino che si era perduto.
Terminata la fiaba correva via e l’indomani eccolo ritornare.
Allora oggi cosa mi racconti”. Provai ad intavolare altri discorsi più concreti , dove abiti, da dove vieni, chi sono i tuoi genitori. Rispondeva a monosillabi. Seppi solo che abitava in un campo nomadi alla periferia della città e che aveva viaggiato tanto. Mi disse anche “ sai mia nonna era una regina, una regina del Montenegro; e allora io sono un principe vero? Come quello della fiaba”
“Sì- gli dissi- sei un piccolo principe, come nella Fiaba della Bella Addormentata”
Avevo quasi del tutto saccheggiato la mia memoria; per ultima tenni Biancaneve. Gli dissi, oggi ti racconterò Biancaneve.
Fu quel giorno che si presentò all’edicola un giovane che chiese di vedere le riviste di moto; le avevo esposte all’esterno, sulla parete di sinistra; uscii dall’edicola; lui ne prendeva una, la sfogliava un poco, poi la posava e ne prendeva un’altra: non si decideva. All’improvviso sentii un grido; era la voce di Khaleb
“ dannati gaggi, qui c’è pane per i vostri denti…” e sfoderò il coltellino.
“ Khaleb no!, che fai, mettilo via!”
Il giovane mollò la rivista e si mise a correre sotto il portico, feci appena in tempo a notarne un altro sgusciare fuori dall’edicola e darsela a gambe. Vidi il cassetto del danaro ribaltato. Non mancava nulla.
Khaleb mi fissava sorridendo sardonico “ ti fai fregare anche dai ladri gaggi… quelli non erano zingari bello”. Eravamo diventati veri amici.
“ Ti ringrazio” gli dissi e gli tesi la mano.
Lui ci battè sopra la sua. “ Siamo pari ora”. Fece per andarsene
“ Bè, e la storia ? Non la vuoi sentire ?”
“ Un’altra volta…”
D’improvviso era ricomparso il ragazzo di strada sprezzante e crudo.
“ Vado perché entro sera debbo racimolare 50.000 lire da portare al Campo”.
Presi 10.000 lire dal cassetto e feci per dargliele ma lui era già sparito
Posato sul bancone c’era il libro illustrato delle nostre fiabe; era rimasto aperto alla fiaba di Biancaneve, l’illustrazione mostrava il Principe che emergeva dal fondo del bosco e galoppando si avvicinava a Biancaneve addormentata e distesa in una cassa di cristallo. Non avevo fatto in tempo a narrare a Khaleb l’ultima, parte , il lieto fine, proprio a lui che era nipote della Regina degli Zingari del Montenegro.
Piegai la pagina sulla figura del Principe e riposi il libro nello scaffale. Domani finirò di raccontargli la storia, dissi tra me…
Khaleb non tornò mai più.
Cercai di informarmi dove fosse andato a finire, ma sembrava che nessuno lo conoscesse, neppure in Commissariato. Forse se ne era andato in un altro Paese seguendo la carovana o forse si era spostato solo in un’altra città, a Reggio o a Bologna, a dare calci ai passanti che non sganciavano le monete.
Non avevo mai nutrito una particolare simpatia per gli zingari, ma i bambini sono uguali dappertutto, e tutti meritano d’avere un sogno, di giocare, d’essere felici, di credere in un mondo bello e buono.
Da quei ricordi sono passati diversi decenni. La vita mi ha risucchiato, giorno dopo giorno, nei problemi del quotidiano e per diverso tempo mi ero dimenticato del piccolo zingarello e di quel periodo della mia giovinezza. Oggi la Tv ha parlato di settecento bambini morti annegati in un anno, mentre cercavano d’attraversare il mare per inseguire un sogno; sono dati che anche i miei quotidiani ripetono e che si mischiano nella mia mente ai telefilm, alle previsioni del tempo , alla pubblicità , ai volti sorridenti delle star di Hollywood. Ma se ti capita di conoscere gli esseri umani, di guardarli negli occhi, di sentirne la voce e il respiro, il pianto e il riso, è più difficile accettare impunemente che possano soffrire; soprattutto se sono bambini.
Khaleb aveva il volto pieno di cicatrici e un coltello nella tasca dei blue jeans , ma amava le fiabe, come tutti i bambini. Forse anche lui avrà ricordato ciò che io gli narravo e avrà imparato nel tempo a vedere un
poco di colore intorno a sé e a sperare nella felicità.
Io non appartengo più a questo mondo. La gente passa con l’orecchio incollato al cellulare, prende il giornale e parla con una persona che non vedo; mi allunga le monete e se ne va. Presto cederò la Casa dell’Arcobaleno, a una persona più moderna, che sappia ridarle vita, perché tutti arrivando dal portico possano tornare a vedere l’edicola splendente di colori come appariva a me da bambino. Ma per ora sono ancora qui, come ogni giorno.
E’ già quasi l’alba. Il Gufo della Torre ha smesso di volare sulla piazza. Tra poco giungerà il camion a portare i quotidiani. Respiro profondamente l’aria del mattino che a quest’ora non puzza ancora. E penso: buongiorno Modena, mia bellissima signora.

(ogni fatto e ogni personaggio sono frutto unicamente della fantasia dell’autore)